
Filippo Galli è un ex difensore del Milan dei cosiddetti “Immortali”.
Una squadra di calcio che, guidata dal visionario allenatore Arrigo Sacchi, ha vinto tutto ciò a cui un club può ambire. Quel Milan ha rappresentato un progetto che ha espresso un esempio vincente di bel gioco. Un gruppo di persone accomunati da forti valori umani: rispetto, spirito di sacrificio, talento messo a disposizione del collettivo.
Filippo, dopo aver collezionato ben 325 presenze, di cui 217 nel Milan, ha ricoperto il ruolo di allenatore e dirigente sportivo. Dal 2009 al 2018 ha diretto il settore giovanile del Milan come responsabile tecnico. Successivamente ha svolto il ruolo di coordinatore del corso per responsabile di settore giovanile al Settore Tecnico della FIGC, facendo anche parte della commissione per lo sviluppo del calcio giovanile in Italia.
Ha creato un blog chiamato “La complessità del calcio” che si occupa di formazione in ambito calcistico. Inoltre ha scritto un libro “Il mio calcio eretico” in cui, da un lato ripercorre la sua carriera e dall’altro propone un modello di educazione per i giovani di oggi.
Per approfondire alcuni passaggi chiave del suo libro, come l’innovazione che ha introdotto nel gioco e la sostenibilità sociale del movimento sportivo, gli ho rivolto alcune domande.
Nel tuo libro proponi un modello di calcio in cui il giocatore va valutato nella sua interezza non solo come atleta. Quanto è importante oggi, in un settore giovanile, coltivare relazioni, benessere psicologico e attitudini mentali oltre alle competenze tecniche e fisiche?
Per me va tutto assieme. Io non parlerei tanto di “Prima le persona e poi il calciatore”. Non possiamo avere una visione riduzionista o meccanicistica dove tutto viene separato dalla parte mentale, da quella emotiva, da quella tecnica o fisico – atletica.
Io credo che vada visto insieme secondo un paradigma più sistemico. Ritengo che questo sia fondamentale
per avere un'attenzione su quelle che sono poi le condizioni dei nostri giovani, ma anche delle donne, degli uomini e degli sportivi in generale, che lavorano per esprimere al meglio se stessi. A monte della formazione sono necessarie delle competenze perché queste persone devono essere in condizioni di performaread alti livelli. A volte c’è il pensiero, soprattutto nel settore giovanile, che si possa ottenere il massimo dai ragazzi e dalle ragazze stimolandoli di continuo con metodi dubbi. In questo senso si vedono allenatori che urlano contro gli atleti. Ma le motivazioni sono intrinseche, non estrinseche. Bisogna valutare, caso per caso, se abbia senso alzare la voce o se sia più efficace instaurare un rapporto di tipo più relazionale.
Sostieni che "il talento si nutre dell’altro". In che modo si può formare un giovane calciatore la cui capacità passa anche attraverso la capacità di riconoscere il valore dei compagni e del collettivo?
Questo aspetto è fondamentale nel calcio che è uno sport di squadra, ma vale anche negli sport individuali. Infatti, anche questi possono essere visti come sport di gruppo se consideriamo l'importanza, ad esempio, di un team manager, dei massaggiatori e dei compagni di allenamento. Le relazioni all'interno del gruppo di lavoro sono quindi essenziali. Quello che sostengo, almeno in base alla mia esperienza, è che anche il giocatore più talentuoso, per affermarsi, ha bisogno di relazionarsi con gli altri; solo così può crescere. Una relazione non riguarda solo ciò che accade sul campo, ma anche il modo in cui ci si comporta con i colleghi. Non significa necessariamente essere amici, né si tratta di buonismo, ma di comprendere che, in un contesto di squadra, l'interazione con gli altri è determinante per tirare fuori il meglio di sé.
Nel tuo libro, parlando di giovani, fai l’esempio di Donnarumma come calciatore con una grande resilienza mentale. Quanto conta per un calciatore sapersi resettare dopo un errore e continuare a performare ad alti livelli?
Anzitutto va detto che l’errore fa parte del processo di crescita, non possiamo pensare che sia una componente dell’attività sportiva, dell’allenamento o della gara. Durante la prestazione si ha il momento più importante per potersi migliorare e per poter valutare dove correggere gli errori. Bisogna saper gestire l’errore. Donnarumma ha questo talento, che definirei come capacità di vivere l’errore in maniera molto naturale, senza ansie, ma che soprattutto non vada a ledere la prestazione sul momento. Questa dote non è solo una questione genetica, dipende anche dal contesto di crescita.
Curi un blog chiamato “La complessità del calcio”, in cosa consiste questo progetto?
La complessità del calcio nasce grazie all’incontro di persone splendide che ho incontrato nel calcio post giocato, nel settore giovanile che sono: Edgardo Zanoli, Domenico Gualtieri e la Dott.ssa Caterina Gozzoli. Grazie a loro ho avuto modo di vedere lo sport con prospettive diverse e multidisciplinari. Quando ho terminato la mia esperienza, da responsabile metodologico, con il Parma Calcio, mi è sembrato doveroso condividere un’idea di apprendimento del gioco che non fosse quella tradizionale.
C’è una parte legata alla metodologia che si basa su come apprendere a giocare a calcio, come sviluppare il talento, come seguirlo, come accompagnare un giovane nel suo percorso di crescita. Ovviamente il mio blog non ha l’intenzione di essere visto come un Vangelo, ma è certamente un contenitore dove vengono riportate esperienze e studi che sono stati realizzati. Un progetto che attinge dal mio vissuto ma anche dal contributo di altri collaboratori. L’obiettivo per noi è presentare la complessità ai ragazzi e accompagnarli attraverso questa per metterli nelle condizioni di apprendere.
Nel tuo percorso hai messo in evidenza l'importanza di conciliare la carriera sportiva con quella formativa. Quanto è importante oggi per un giovane calciatore avere accesso a programmi di "dual career"?
Sicuramente i tempi sono cambiati rispetto a 10 anni fa o 20 anni fa. Diciamo che c'è molta più sensibilità, sia da parte del Ministero dell'Istruzione, che da parte delle società sportive. Avverto molta più alleanza in questo senso. È chiaro che poi molto dipende dalle persone con cui ci si trova a che fare. Quando si dà la possibilità agli atleti di fare sport di alto livello, poi ciascuna scuola o università ha la possibilità di sostenere i ragazzi. Dipende sempre anche dai docenti che trovi di fronte, e quindi quanto si è più disposti a collaborare. C’è ancora questo costume secondo me, l'idea che il giocatore sia una persona privilegiata. Non metto in dubbio che lo sia per certi aspetti, ma poi si vede in qualche modo essere penalizzato nel suo percorso di studi, e credo che pian piano questo debba essere superato. Siamo comunque nella giusta direzione, infatti ci sono sempre più giocatori che riescono a laurearsi e quindi portare avanti questo doppio impegno.
Hai avuto un’esperienza all’estero che nel libro definisci come il tuo “Erasmus a 38 anni”.
Nel 2001 avevo 38 anni e ho avuto la possibilità di giocare nel Watford. Per me è stato come toccare il cielo con un dito perché ho sempre amato il campionato inglese. Una passione nata a 6 anni quando collezionavo le figurine Panini. Se ho militato in Inghilterra devo ringraziare Gianluca Vialli che mi ha chiamato ad allenarmi per lui. Sebbene sia stata una stagione deludente dal punto di vista del risultato (siamo arrivati a metà classifica quando l'obiettivo era andare nei play-off) dal punto di vista personale è stata molto stimolante. In termini di prestazioni ho fatto bene e poi mi ha permesso di conoscere una città straordinaria: Londra. Giocando il sabato e il martedì in First Division, potevo andare a vedere le partite di Premier League che per me erano la massima espressione del calcio giocato.
Nella carriera di un calciatore, assume una valenza cruciale anche l’educazione dei genitori come hai sostenuto nel tuo TEDX di Barletta: Come educare il talento - anatomia di un campione.
I genitori possono essere una risorsa per la crescita di un calciatore, ma possono rappresentare un ostacolo. Se tu dai loro degli strumenti per poter comprendere quello che i figli fanno, è più probabile che diano un contributo a noi allenatori. Ho fatto un esempio con l’under 16 del Milan della stagione 2016/2017 quando i ragazzi hanno vinto un torneo che in realtà non aveva un altissimo valore. Ma è stato il come l’hanno vinta a fare la differenza. E il sostegno dei genitori all’intero club è stato determinante. Dopo un'annata in cui i ragazzi avevano vinto poco, hanno capito che giocando in un certo modo con un certo stile di gioco si potevano raggiungere dei risultati. Questa è stata la spinta che poi ha permesso loro di andare nelle fasi finali del campionato e portare a casa il titolo. Ripeto, vincere è importante ma ancor di più è importante come si vince. Per me significa delineare un gioco fatto di un calcio formativo, un calcio di possesso, un calcio propositivo perché questo tipo di gioco ha gli aspetti che aiutano alla crescita del movimento sportivo.
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